L'ago
"La storia di Peter Coniglio" di Beatrix Potter - Link immagine: http://www.artspecialday.com/9art/2017/12/22/beatrix-potter-peter-rabbit-natura-amica/ |
L’AGO
Il signor Hase viveva nella tana
sotto il grande lago. Lui stesso l’aveva scavata con le proprie zampe nella
terra umida e compatta, composta di limo torba, che aveva asciugato e fissato
con legno di betulla e carta da parati a motivi floreali. Dalla finestrella che
dava sulla sala del camino veniva sempre un denso fumo nero che saliva verso l’alto,
all’unica presa d’aria che si apriva nel tronco cavo della Quercia di Ostara,
la cui ombra danzava alla sera sulle onde del lago.
Nella galleria rimbombarono pesanti
i passi d’una sua vecchia conoscenza. Il signor Hase, borbottando e digrumando
un fascio di rametti secchi, posò le carte che aveva fra le zampe e s’alzò
dalla scrivania per portarsi alla credenza, dalla quale prese un’elegante
tabacchiera.
«Signor Hase! È in casa?» risuonò
una voce profonda nella caverna, accompagnata dal rintocco metallico del
batacchio sul portone.
«Arrivo! Giusto un secondo…»
rispose il signor Hase, accendendosi la pipa.
I cardini cigolarono e la soglia s’aprì
su di un viso affusolato, bianco e a strisce nere che dalla fronte gli calavano
sugli occhi e avanti sino al naso, alla cui estremità era fissato un paio di
spessi occhialetti miopi.
«Dottor Tasso, lieto di vederla.
Prego, s’accomodi».
La figura tonda e ricurva del
dottor Tasso si fece largo nell’anticamera spaziosa. Depose l’ombrellino, un
poco bagnato dall’umidità della caverna, e avanzò verso il fuoco, scoppiettante
nel camino. Sotto braccio reggeva una valigetta in pelle color vinaccia, chiusa
da un’elegante fibbia d’ottone.
«Gradisce?» continuò il signor
Hase, offrendogli la tabacchiera.
«No grazie, vecchio amico: gli anni
si fanno sentire e, ahimè!, non son più avvezzo a certi piaceri. Prego, siediti
anche tu. Abbiamo da discutere».
Il signor Hase prese posto sulla
poltroncina di fronte al dottor Tasso, approfittando del momento per afferrare
un nuovo fascio di rametti. L’ospite depose la valigetta sul tavolo e fece
scattare la fibbia, rivelando il contenuto.
«Cominciavo ad essere in pensiero:
l’Equinozio è passato ormai da giorni» riprese il signor Hase, allungando la
zampa destra per recuperare i documenti.
Il dottor Tasso tossì più volte e
fece un gesto con gli artigli, fissando uno sguardo vuoto sulle fiamme
crepitanti: «Dai un’occhiata. Capirai».
Nel tepore della fiamma, lo
scricchiolare del legno e la canzone delle gocce che calavano dalle crepe nei
vasi disposti un po’ ovunque per la casa scandivano lo scorrere dei minuti.
Nessuno dei due aveva fretta.
«I nomi sono molti, molti di più
dell’anno scorso».
«Invero.» confermò il dottor Tasso
«Noterai tuttavia il dettaglio».
Il signor Hase lasciò cadere il
plico di fogli sul tavolo e s’abbandonò ai braccioli della poltrona. Colonne e
colonne di nomi, lunghi e brevi, cacofonici e dolci, da tutti gli angoli del
mondo. E a fianco a loro lo spazio per una dicitura: cattivo o buono. Ciò che
di sorprendente e a pari modo insolito corollava l’elenco di quell’anno era,
invero, una piccola nota a pedice di alcuni, troppi, nomi.
«Come dovrei interpretarlo?».
«Signor Hase…».
«Chiamami “Oster”. Ti prego».
Il dottor Tasso distolse lo sguardo
dalla fiamma e cercò quello del vecchio amico, collega, vicino. Le loro iridi
parevano abissi di tenebra, nella penombra rischiarata dal fuoco vivo del
camino, e il balenare delle scintille brillava sul pelo ormai scolorito e non
più lucido d’entrambi.
Si lisciò la blusa color del cielo
notturno, mentre il signor Hase riponeva la tabacchiera nella tasca del
panciotto scarlatto e controllava l’ora sul suo orologio da taschino argentato.
«Oster, gli anni passano e il mondo
cambia. Noi ci siamo adattati, invero, ma a tempo dilatato, e siamo rimasti
indietro. Quella di tuo padre era una favola per bambini, un monito e un augurio.
Alla realtà d’oggi, ormai, non basta così poco ad incantare».
Il signor Hase si alzò dalla
poltrona e a piccoli balzi raggiunse il cucinotto. Un sommesso sbattere di
pentole e mastelli coprì quasi le successive parole del dottor Tasso: «I
bambini d’oggi non sono tanto ingenui e nemmeno semplici: cercano l’inaspettato,
lo sconosciuto. Pensano come gli
adulti, si atteggiano come tali. Ed invero…».
Il signor Hase fece ritorno con una
grossa marmitta. Subito il dottor Tasso si alzò per dargli una mano ed insieme
la fissarono sopra il fuoco scoppiettante. All’interno, notò l’ospite, erano
state deposte una decina d’uova e tanti, tantissimi petali scarlatti.
«Ti ringrazio» disse il signor
Hase, massaggiandosi la schiena, mentre scivolava nuovamente nella poltrona.
«Il punto è» continuò il dottor
Tasso, quasi non fosse stato interrotto «che non siamo più in grado di capire,
di discernere, amico mio. Per questo motivo, oltre al tuo solito incarico, ti
chiediamo consiglio. Perché fra tutti i conigli…».
«Lepre, prego».
Il dottor tasso sbuffò, prima di
riprendere: «Fra tutte le lepri tu
sei la sola che sia in grado di capire. Tu, che fosti la prima: Oster Hase Georgensson».
Calò un silenzio drammatico, rotto
dal rimestare delle uova contro le pareti del tegame. Un intenso profumo di
rosa si sparse per la stanza.
«Erano decenni che non sentivo quel
nome!» scoppiò a ridere il signor Hase, battendosi una zampa sul panciotto
«Quel che però tu chiedi, amico mio, a questa vecchia lepre va oltre le sue
capacità. A ciò dovrebbero rispondere le nuove generazioni, le nuove speranze dei bambini cui la mia ha fatto
posto. Non può chiedermi d’essere ancora una volta giudice dei loro sorrisi e
del loro buon cuore».
«Eppure tu hai esperienza, dalla
tua, che a loro manca. In questo momento tragico di cambiamento travolgente,
dove possiamo guardare se non al passato glorioso, semplice e definito? Noi
vogliamo che tu sia…».
«L’ago».
Nuovamente silenzio. Questa volta,
miserevole.
«Il mondo è cambiato, l’hai detto
tu stesso. Credi che non lo senta, nelle mie ossa così fragili, nell’umidità
che appesta la mia casa? Il tempo scorre, io l’inseguo a balzi sconnessi e
impacciati, rincorrendo un’idea di me che ogni giorno di più diventa stereotipo
ed ombra, della leggenda dolce che sussurravano ai bambini la notte di Pasqua.
Non ci sono più bambini che corrono per i campi in cerca delle mie uova colorate,
perché non ci sono più i campi. Non ci sono più preghiere e reverenziale
pensiero al momento d’aprirle, sulla tavola, tutti insieme, perché fra gli
uomini non c’è più unità. Tu chiedi a me d’essere l’ago della bilancia, giudice
e certezza per un mondo che si basa sull’indefinito, sul dare ogni giorno nuove
definizioni alla realtà. Io credo…».
Il signor Hase si alzò, prese il
guanto imbottito dal tavolino e la schiumarola dal ripiano del camino, s’avvicinò
alla marmitta e vi guardò all’interno. Il suo sguardo si perse nel colore
sanguigno dell’acqua tinta.
«… Credo che non esistano neanche
più, i “bambini” come li intendete voi. Per questo non riuscite a capire se
questi nomi, questi umani, appartengano già al mondo degli adulti. Voi cercate
le ombre d’un’idea passata, una favola. Ad oggi, non c’è più tempo per le
favole. Perché nessuno è più bambino, ormai».
Il dottor Tasso abbassò lo sguardo.
Prese i fogli, richiuse la borsa, e si alzò.
«Con permesso».
Il portone si richiuse, lasciando
il signor Hase in compagnia delle sue uova. Le depose in un cestino, uno dei
tanti che affollavano il magazzino, sconfinato, che si estendeva sull’intera
base del lago. Il soffitto, in vetro smerigliato, rifletteva i sorrisi dei
bambini.
Nella sala deserta, il signor Hase
depose il cestino e ne prese un altro vuoto, alzando lo sguardo.
«Forse un giorno questo cielo non
sarà più tanto vuoto».
Era l’anno 2068 e ormai da mezzo
secolo il cielo aveva perso ogni sua stella.
Giacomo Soraperra, 11 Aprile 2018
Commenti
Posta un commento