I racconti della Luna Selene

Selene





Questa volta mi sono limitato ad un singolo racconto, senza che vi fosse la necessità di riscriverlo. Invero, l'ho composto ieri sera e credo non necessiti ulteriori modifiche.

Sinossi:
"Il vecchio cercatore di miracoli torna dopo anni alla sua città natale, dove si mormora che nelle notti di Luna nuova la foresta echeggi del suono dei tamburi e degli spiriti. In cerca di coloro che sono scomparsi seguendo la musica e rincorrendo la propria curiosità, il vecchio si addentra nel bosco. Ad attenderlo, uno strano sogno".
Ad una prima lettura potrebbe apparire che il finale sia tronco od incompleto. In realtà, era quella l'intenzione. Il vecchio cercatore, ch'altri non è che il narratore dei racconti della Luna, ha interesse di tramandare solamente le leggende e i miracoli riguardanti le Fanciulle delle Luna; la sua storia è di poca importanza, e perciò termina col minimo necessario: uno spunto, per comprendere cosa sia veramente accaduto.

Miei cari lettori,
buona lettura.


Giacomo Soraperra





Selene






Nella mia ricerca, mi spinsi un giorno sino al paese delle dolci colline, al confine fra l’antica patria del grande Impero e il canto del mare. Lì lasciai che i ricordi mi conducessero alla casa dei miei padri e ai boschi che avevano allevato me fanciullo, osservato impotenti l’uomo che fuggiva le sue origini ed ora, con un sorriso in parte di scherno (come a dire: “Ecco, te l’avevo detto”) e invero quanto mai felice, accoglievano un vecchio cercatore di miracoli.
Ma non era stata la nostalgia a riportarmi a casa: correva la voce, fra i mercanti, che nella notte risuonassero i tamburi fra le fronde profonde del bosco, e un gran fragore di strumenti e voci, e ciò accadeva sempre il giorno del mese in cui la Luna, dopo la grande oscurità, prendeva al suo grembo il carico di una nuova vita e dunque, giovane e gravida, stendeva sulle colline il suo chiarore perlaceo color acquamarina. Sicché, non mi sorpresi alla prima notte dal mio ritorno quando, sporgendo il capo al vento impetuoso e vivo della sera, scoprii che la terra e il mare erano quasi indistinguibili, per lo stupendo colore e l’anima che muoveva le onde e le fronde insieme. Sentii nel cuore ridere il ragazzo d’un tempo, mentre le guance del vecchio che sono si bagnavano d’innocenza.
La terra solleticava le porte dell’estate, ed era il giorno del mese in cui la Luna faceva l’amore col cielo: le stelle brillavano a milioni e festose lampeggiavano nell’azzurro, il mondo intero pareva in festa.
E li sentii. I tamburi, lontani.
Al cancello le guardie cercarono di dissuadermi.
«Questa notte, gli spiriti danzano al ritmo dei cembali e dei flauti» disse una di loro, un ragazzino.
«Chiunque abbia seguito il loro canto, non ha fatto ritorno. Anche se è vecchio e il gelido letto o la malattia possono spaventarla, non ha senso gettare la propria vita prima del tempo» sentenziò l’altra, la cui età era prossima alla mia e il pallore dei troppi ricordi annebbiava gli occhi castani.
Io sorrisi, e oltrepassando i cancelli risposi: «Invero, credo che seguire quelle luci sia l’unico modo meritevole di impiegare il poco tempo che mi resta».
Le mie parole si persero nel vento, e il cammino sotto i miei passi.
Nella foresta regnava il silenzio. I racconti della “Marcia degli Spiriti” avevano spaventato non solo i contadini della regione, ma anche i banditi che ora evitavano accuratamente gli agguati al chiaro di Luna. I marinai della costa, loro invece non tremavano: ne avevano visti, di demoni e mostri, tanti da perderne il conto, sia per mare che per vino, e perciò avevano l’ardore di riderci sopra, scommettere due monete d’argento che sarebbero sopravvissuti una notte nel bosco, e così il numero delle vittime era salito oltre misura nelle città costiere e non nei paesi delle colline.
Per quanto mi riguarda… Mentirei, affermando che non avevo paura. Ma la curiosità e il fine nobile del mio viaggio, il bisogno d’un miracolo, conducevano i miei passi con risoluzione.
I tamburi erano sempre più vicini, sebbene il loro suono non crescesse d’intensità o divenisse assordante. Semplicemente, li percepivo ormai prossimi; più che davanti, intorno a me.
E poi, giunse il tamburello.
Batteva subito dopo il tamburo, come un singhiozzo, come un ubriaco che segue la folla urlando la propria gioia. Mi girai e cercai in ogni direzione, senza trovar altro che foglie e licheni intorno a me. Perché ancora, non riuscivo a vedere. Allora, chiusi gli occhi.
Sentii il respiro della foresta e il suo dolce torpore, sentii la carezza della luna sulle gemme alte degli alberi e il fruscio dell’erba sotto i miei passi. Sentii la rugiada picchiettare fra le foglie basse, e poi mi resi conto che acqua non era: martelli minuscoli battevano su altrettanto minute barre di legno.
Prima che me ne rendessi conto anche il vento fra i rami aveva mutato natura ed era ora chiaramente un fruscio del crine sulle corde tese. Spalancai la bocca esterrefatto e in quell’istante si alzò alto e glorioso il canto del flauto, che mi chiamava a sé.
Aprii gli occhi e la meraviglia mi avvolse: scoppiai a ridere e a cantare, volteggiando fra le lucciole della radura e i sorrisi che intorno a me sbocciavano, sui visi delle persone che come me s’erano radunate per la Festa. Alzai lo sguardo e vidi la Luna, falce sottile, abbracciare in un unico gesto le stelle e noi, che danzavamo per lei. Ma la lama di luce invero stava cercando di raggiungere il grande obelisco di pietra cerea al centro della radura, come un tozzo dito della Terra teso verso la sua sposa celeste. E quando si toccarono, meraviglia! Dai licheni irruppe la vita e la melodia si fece alta e gioiosa. Mi toccò l’animo e rinfrancò il vecchio cuore. Nel bagliore della Luna dimenticai ogni mia preoccupazione e l’identità del mondo: c’era la musica, il canto e le risa, e null’altro poteva esistere al mondo.
In quel momento compresi che la vita è gioia, quella gioia, così semplice e pura, priva di pregiudizi e confusione. Una gioia pura, unica, cristallina. Capii quanto sciocco ero stato in giovinezza a cercare un senso o uno scopo al mio nome. Realizzando l’ineluttabilità della risposta e la sua disarmante ovvietà, e di quanta complicazione avevo caricato un sì delicato fiore, improvvisamente scoppiai a piangere. Eppure, ridevo! Ah, come ridevo! E anche gli altri, intorno a me, ridevano e piangevano! La nostra danza era un ringraziamento alla Luna per il suo immenso dono, e una consolazione per noi stessi.
La fanciulla dei licheni discese in mezzo a noi e dietro di lei venne il tamburello, con il cembalo e il violino; in coda, il flautista conduceva un carretto trainato da un cerbiatto, sul quale stava lo xilofono. Si fermò al centro della radura, circondata dagli strumenti musicali, e insieme danzammo tutta la notte. Il suo sorriso era così dolce, sulle labbra di pesco, e i suoi occhi brillavano come le stelle, sebbene il viso pallido fosse quello della madre e dunque celasse una nota di malinconia; i piedi avevano la forza del mare e la vita del vento, che le animava la veste perlacea e sottile. I suoi capelli… Non ne ricordo il colore. O forse, nessuna parola umana potrebbe descriverne la luce, il riflesso stesso dell’universo che insieme a lei danzava.
Quando la notte sfiorì e la Luna ormai gravida s’avviava al riposo, la fanciulla fece un gesto al flautista e questi, saltando in groppa al cerbiatto, condusse il carretto verso il limitare della radura. Gli altri strumenti lo seguirono marciando e dietro a loro i contadini e i marinai, le ragazze in età da marito e le vecchie avvizzite: tutti li seguirono, danzando e cantando fra le prime luci dell’alba.
Io, colpito dalla bellezza misteriosa del corteo, rimasi per ultimo nella radura. Quando fu il mio turno di unirmi alla Marcia, però, sentii che qualcosa mi tratteneva. Mi voltai, e vidi la Fanciulla della Luna che stringeva il mio mantello logoro fra le dita piccole e immacolate. Mi chinai e il mio sguardo fu al livello del suo. Potei specchiare i miei occhi nelle sue iridi splendenti e per un instante mi sentii indegno di una tale fortuna.
Fui per schiudere le labbra, ma lei vi pose sopra un dito.
Mi sorrise.
«Non ancora» mi disse.
Nella radura tornò il silenzio. Il vento soffiava fra le foglie e i rami, e gli animali selvatici s’accalcavano per bere la prima rugiada del mattino. Alzai lo sguardo e vidi il cielo azzurro, le nuvole correre libere sfidando i falchi in picchiata.
Quando la vedette m’avvistò, suonò a lungo la campana e in breve il villaggio s’animò. Al mio arrivo, una gran folla s’era accalcata al cancello e un vociare sommesso e preoccupato anticipò i miei passi.
Una delle guardie si fece avanti. Lo riconobbi: era il ragazzino. O quasi.
«Quanto è passato?» gli chiesi.
Si tolse l’elmetto, e incredulo si avvicinò a me, scrutandomi.
Scoppiai a ridere: «Tranquillo, non sono un fantasma!» dissi.
Non ci credette. Perciò, mi pizzicò le guance. Appurando così che non ero una visione, scoppiò anche lui a ridere, e la folla alle sue spalle trasse un sospiro di sollievo.
Mi poggiò dunque una mano sulla spalla e, lisciandosi la folta barba bianca, disse: «Bentornato a casa».





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