Dagli archivi di Liberta: La riconquista della Torre
PREMESSA: questo racconto è la "traccia" di un video a cui sto lavorando e che (spero) uscirà a breve sul canale youtube de "il fiore di carta". Per questo, noterete che lo stile è diverso rispetto a quello che solitamente adotto. Inoltre, appena uscirà il video, vi renderete conto che questa traccia è stata completamente riscritta: tale testo si presenta infatti eccessivamente magniloquente e non adatto a rappresentare il monologo d'un vecchio soldato, per quanto istruito e formale egli possa essere... Inoltre, nel riascoltare la registrazione di me che leggo appassionatamente questo testo, non potevo far a mento di pensare a quanto fossi ridicolo. Difatti, questo racconto, così come ve lo presento in tale forma, è più adatto alla narrazione tramite libro che per voce.
Buona lettura.
Dagli archivi di Liberta
La
Riconquista della Torre
Dunque, davvero volete
sapere come è andata? Non è una storia di particolare intreccio, né tantomeno una di quelle squallide ballate che definiscono "eroi" noi ex soldati di Liberta. No, son solo ricordi, i miei, intrisi di profonda amarezza. Se cerchi il calore, amico mio, hai sbagliato viso: da tempo ormai la fiamma ha abbandonato quest'anima avvizzita; se invece desideri la verità, allora ascolta: questo è il racconto de "La riconquista della Torre".
17 Luglio 2140. Io e
la mia squadra, divisi, servivamo da ufficiali in comando per le divisioni
incaricate di difendere il confine Occidentale di Bulgaria e Romania, soggetto
ad un violento attacco Unionista. Liberta, la nostra capitale, era stata
svuotata per rifornire il fronte d’uomini e armi: i nostri nemici, consci di
questo, concentrarono le forze a nostra insaputa sul confine Bulgaro, irruppero
con violenza e nel giro d’un giorno conquistarono la città, e la Torre al suo
centro, coi suoi obici e cannoni antiaerei in grado di porre in scacco le
nostre truppe e devastare le trincee, impedendoci di riorganizzare la difesa.
Dovevamo agire in
fretta, per evitare che gli Unionisti dilagassero attraverso la breccia e ci
schiacciassero con un attacco a tenaglia. Ero al comando del quarto Battaglione
Aerotrasportato di Mosca, e il nostro obiettivo era chiaro: riprenderci la
Torre. O distruggerla.
Partimmo la notte
stessa, su centinaia di aerei cargo, diretti in Bulgaria.
Quattro ore di volo
radente per evitare d’essere scoperti dai radar, poco sonno e grande angoscia,
puzza d’urina e sudore. Quando la luce rossa s’accese e l’alba sorse sul nostro
assalto suicida, qualcuno scoppiò a piangere. Il salto, comunque, non fu dei
migliori.
Ed eccomi, a rotolare nel
vento, confuso e stordito, ma gelido nel cuore, nell’animo di soldato. Sentivo
gli spari e le grida dei compagni già a terra, più fortunati di me. Il Sole
sorgeva su una città, la mia, devastata, eppure tanto bella... Fra i tetti infranti
notai un solaio che offriva un’ottima visuale sull’ingresso della torre; tirai
dunque le corde del paracadute per dirigermi in tal punto…
E fu un disastro.
Inciampai in una trave
e rovinai a terra, certo d’aver offerto ai cecchini un ottimo bersaglio. Se non
fosse stato per fumogeni lanciati dai
miei compagni, quei colpi m’avrebbero certo procurato più di qualche graffio.
Liberatomi del paracadute corsi in copertura dietro un muro spezzato, e
imbracciai il mio fucile Sunshine. Avevo montato un mirino ottico, pensando che
mi sarebbe stato utile.
Un’ottima intuizione.
Mi occupai innanzitutto
dei cecchini, poi della mitragliatrice fissa che sorvegliava l’ingresso.
Aggirai dunque le barricate nemiche per colpirli dal fianco. Estrassi la
pistola automatica donatami da Hawk, e con piacere ne riscoprii le
potenzialità: raffiche di venti colpi, il rinculo e il lampo vermiglio, avanzai
guidando i miei compagni.
Oltre l’ingresso,
notai un ampio gruppo di nemici accompagnati da un mezzo corazzato. Fortunatamente,
mi ero equipaggiato con un certo numero di granate anticarro.
Nell’ingresso
devastato, insieme avanzammo scaricando piombo e plastico sui nemici, giungendo
alle spalle d’un altro mezzo corazzato. Stavolta, optai per un approccio di
precisione.
Ripulita l’area,
scoprimmo che gli Unionisti avevano sbarrato l’ingresso della torre. L’unico
modo per raggiungere i piani sopraelevati, dunque, era attraverso i
camminamenti esterni.
Mentre gli altri
forzavano il portone blindato, scalai la pericolante impalcatura sino a
giungere al terzo piano. Di lì, mi diressi alla Sala di controllo Energetico
del secondo piano, per disabilitare i sistemi radar che fornivano le coordinate
ai cannoni e alle antiaeree.
Estrassi il fucile
d’assalto automatico, conscio che mi sarebbe servita una consistente potenza di
fuoco piuttosto d’un approccio di precisione. Mentre falciavo una vita dopo
l’altra nel tempo d’un sospiro, sentivo intorno a me risuonare le grida e gli
spari, pioggia d’estate che a malapena mi rigava la fronte o le guance, sotto
l’elmo che mascherava la mia stessa umanità.
Ero una furia, ero io
stesso la morte, e nulla poteva fermarmi. Erano foglie avvizzite e io il vento
inclemente. Vedevo i loro occhi vacui, l’improvviso pallore del volto, la
rigidità delle dita pietrificate nell’ultimo spasmo intorno al grilletto. E
poi, fu silenzio.
Tolta l’energia
elettrica, utilizzai un canale d’aerazione per portarmi, in posizione elevata,
sopra al quarto piano, che ospitava la Sala di controllo radio. Tolti gli
occhi, era il tempo di render muti gli Unionisti. Notai un mitragliere pesante,
probabilmente un ufficiale, che teneva sotto scacco i miei compagni, decisi dunque
di provare i proiettili perforanti del fucile contro la sua corazza di lega
rinforzata. L’elmo deviò il primo colpo, gli scaricai il resto del caricatore
sul petto. All’ottavo impatto, cadde.
Eliminato il gunner,
il resto degli Unionisti si ritirò nella camera blindata. Li inseguii, certo di
intrappolarli, dimenticandomi nella foga di ricaricare. Pessima mossa, visto
che un altro mitragliere mi attendeva oltre l’ingresso! Nel panico,
indietreggiai scaricandogli acciaio tutto intorno, esaurendo in breve il
caricatore. Estrassi la pistola di Hans, sparai, dritto alla testa!
E lui si accasciò.
Riprendendo fiato, pensai
a quando il cecchino mi aveva donato la pistola del padre, al suo sguardo innocente
nell’offrirmi quello strumento di morte per salvare una damigella in pericolo. Hans,
sebbene lontano, mi aveva salvato.
Completati entrambi i
nostri obiettivi, io e i miei uomini ci riunimmo nella sala blindata per
riposarci. Mi ero appena seduto, però, adagiando l’elmetto fra le gambe, che il
marconista si volse a me con la morte in volto. Prima ancora che parlasse,
avevo capito. Mi alzai, calcai il casco sulla nuca, lasciai che la sua ansia mi
scivolasse addosso e imbrattasse i cuori degli uomini alle mie spalle: la
squadra che aveva il compito di conquistare i cannoni era stata decimata. Infatti,
gli Unionisti avevano concentrato la gran parte delle proprie forze negli
ultimi due piani: il tetto, appunto, e la Sala del Consiglio, l’ampio salone di
delibera dei generali Rivoluzionisti.
Cominciammo a scalare
la torre, udendo ad ogni rampa più fragoroso il boato dei giganteschi cannoni. Eravamo
quasi alla cima, quando la Torre fu scossa da un terribile tremore, e il nostro
fiato fu spezzato. Nell’improvviso e innaturale silenzio, decisi di prendere un
montacarichi per raggiungere subito il tetto e scoprire se il mio sospetto era
realtà.
La luce pallida
dell’alba immatura annunciò con ineluttabile grazia la mia ragione: la parete
della torre era stata squarciata e fra i brandelli di calcinacci e pietra il
Sole scivolava smorto, reso vivo ed effimero da una spessa coltre di polvere. Che
fosse esploso un deposito di munizioni o uno dei nostri aerei si fosse
schiantato lacerando il cemento, ormai non aveva importanza.
Mi lanciai oltre la
breccia e trovai un manipolo sfoltito di soldati, sopravvissuti al massacro,
radunati intorno alle esigue scorte di medicinali e munizioni che erano
riusciti a sottrarre al nemico. Ne approfittai per fasciare la spalla e il
fianco, che mi ero ferito durante l’atterraggio, e imbracciai nuovamente il
Sunshine per fornire fuoco di copertura ai compagni che in breve ci avrebbero
raggiunti.
Fu in quel momento,
che accadde.
Bersagliato dalla
distanza, mi accorsi solamente all’ultimo che un mitragliere nemico aveva
aggirato la mia copertura. Sapevo che non sarei riuscito a puntargli addosso il
fucile e tantomeno ad estrarre la pistola di Hans. La mia unica speranza, era
scostarmi ed esplodere un colpo alla cieca. Nella febbrile adrenalina che mi
serrava lo stomaco, non sentii le grida alle mie spalle, non mi accorsi dei
passi veloci né del coraggio che gelava l’aria pregna di fuoco e morte. Non
vidi il mio sottoufficiale correre a testa bassa contro il mitragliere
Unionista.
Fu un istante, il dito
già calcava il grilletto.
Non seppi mai se fu il
proiettile che esplosi o una raffica nemica ad uccidere Johan Rapovich, certo è
che il suo corpo s’accasciò a terra come fosse una marionetta privata dei fili,
esalò in un fiotto di sangue un ultimo sospiro. Io e l’Unionista restammo
sgomenti, increduli e confusi di fronte al grottesco spettacolo, io però
riuscii per primo a recuperare la ragione, e lo uccisi.
Vi domanderete forse
se a volte mi sveglio la notte fra le gelida braccia di Morte, se il rimorso
impietoso strappa i miei petali un giorno alla volta, per lasciar nuda questa
mia anima secca. Oggi come allora, invero, non piansi una lacrima. La falce
ondeggiava e il grano mieteva, nel vento cantavano mille voci sconosciute per intonare
una sola, magnifica ode alla nostra follia.
Vi dirò invero che
sciocco è discernere la natura di Morte: sia essa per fucile, granata o
vecchiaia, quando la carne cede e il mondo diventa fumo, quel che resta sono
braci d’anima veloci a spirare e vesti materiali in nulla dissimili dal cibo
per i porci. E noi, che fummo agresti e virtuosi raccoglitor di teste, siam
forse da biasimare?
In guerra s’è da un
capo o l’altro della falce, sostare al cuore del manico è per natura d’uomo e
fato crudelmente impossibile. Non v’è giustizia nel crollare o nel vincere,
nell’ergersi o nel morire. Solo pietà, per il nostro essere umani e sì stupidi,
da ritenere meritevole il valore della vita e tanto tremenda la morte.
Ma questo è un
discorso che non mi è ora lecito spiegare, e che forse mai capirete. Dunque,
torniamo al racconto.
Non ci arrestammo un
secondo, io e i miei uomini, marciando letali lungo l’intero cerchio esterno
della Torre. Eliminammo gli armieri dei cannoni antiaerei con rapidità e
precisione, consci che prima avessimo rimosso tale minaccia, prima le nostre
fila si sarebbero allargate. Infatti, liberi dalla minaccia, i bianchi vessilli
dell’aerotrasportata imbiancavano il cielo plumbeo e roseo dell’alba di sangue
vermiglia, calando inesorabili sulla cima della torre per liberarne il
piazzale, e con esso gli obici. Il fragore della battaglia copriva la foga
delle mie grida, e dei soldati che guidai alla sofferta vittoria.
Ora, non mi restava
che concludere il lavoro.
[Penultimo piano: Stanza
del Consiglio]
Per i miei peccati, mi
attendeva l’inferno.
Ero esausto e
profondamente scosso, le mie gambe tremavano e così le dita, non più salde intorno
al calcio anteriore del Sunshine. Fu quindi come un baleno di sogno od incubo
che, giungendo al penultimo piano attraverso una rampa di scale, in successione
fui investito dal ruggito d’una mitragliatrice, dai colpi d’un cecchino e,
quando osai sporgermi oltre una colonna, dal lampo accecante del propellente
per razzi.
Si, “propellente per
razzi”.
Destato di colpo come
da una scossa elettrica, mi rintanai dietro il pilastro e subito udii l’impatto
dell’esplosivo contro il cemento, vidi il fumo che avvolgeva la colonna.
“Figlio di puttana!”
pensai, o forse urlai, bene non ricordo. E tuttavia, nel terrore improvviso gli
avevo piantato un colpo in testa.
Ero ancora, comunque,
sotto il fuoco incrociato dei cecchini e d’un mitragliere pesante (un altro
gunner, per la precisione). Decisi di occuparmi innanzitutto di quest’ultimo,
che eliminai dalla distanza senza problemi. I suoi uomini, spaventati e
confusi, schizzarono via come formiche sotto la grandine, offrendo un ottimo
bersaglio ai soldati Rivoluzionisti da tempo in attesa.
Avanzammo uniti in
formazione compatta, grazie al loro fuoco di copertura ebbi così modo di
eliminare un secondo armiere senza dovermi preoccupare dei cecchini. I
portelloni della Stanza di del Consiglio erano sollevati e bagliori sinistri
scivolavano fra le intercapedini d’acciaio rivelando un celato intento omicida;
la loro attenzione era però rivolta ai rinforzi che dalle scale stavano
giungendo, così potei portarmi in posizione avanzata.
I nemici innanzi a me,
privati della guida degli ufficiali, si muovevano disordinatamente e a gruppi
compatti, l’approccio migliore mi parve dunque quello esplosivo. Ripulita
l’area, eliminai i pochi disperati che dall’ingresso della Sala si gettarono
fra le fauci del mio fucile, preferendo una morte rapida allo strazio
dell’attesa, della sconfitta e della prigionia. Con grande sorpresa mi resi
conto che, sulla soglia, un ultimo gunner sostava marmoreo, implacabile.
Ordinai la ritirata,
non valeva la pena di azzardare un assalto diretto alla sua pioggia di fiamme,
tuttavia non potei ignorare le grida che rivolgeva ai suoi uomini: era lui a spronarli al suicidio, a incitarli
con parole di miele e minacce orrende verso una morte che dichiarava
“onorevole”, “necessaria”.
Inutile dire, che per
entrambi questi aggettivi nutro tutt’ora grande dubbio e risentimento, siano
essi rivolti alla nazione Rivoluzionista quanto al WMG. Non vidi onore nel
sacrificio di quei miserabili, e tantomeno negli occhi del gunner quando il suo
cranio esplose in una nuvola scarlatta, né nel viso di terrore acceso del suo compagno
ufficiale che nell’ufficio si era rintanato.
Avvolto da un silenzio
irreale, mi affacciai dunque sulla Sala del Consiglio.
Il primo Unionista
morì all’istante, senza emettere un gemito.
Alla mia sinistra, di
fianco alla porta, qualcuno tremò, dalle sue labbra fuggirono gemiti sconnessi.
Il gunner in fondo
alla stanza accusò tre colpi senza reagire, attendendo e forse pregando che la
corazza che gli proteggeva la testa in breve cedesse.
L’uomo alla mia
sinistra, invece, non aveva già deciso di morire. Finii i colpi all’improvviso,
estrassi la pistola mentre lui mi lanciava, folle disperato, una granata. La
mia raffica gli sfondò il costato e il ventre, mi gettai sul suo corpo
ch’appassiva udendo il rimbalzo alle spalle dell’ordigno…
E nell’ultima esplosione,
mietendo un’ultima anima, conquistai la Sala.
Ricaricai la pistola,
più per istinto che con reale fine. Udii i miei compagni arrivare, la voce del
marconista che annunciava la presa dei cannoni sul tetto.
Avevamo riconquistato
la torre di Liberta.
Come vi dissi al
principio, questa storia non ha nulla d’incredibile o eroico, non suscita
meraviglia e stupore in chi l’ascolta, tantomeno narrata da questa mia stanca e
avvilita voce. Ah! Ma che importa ormai… È storia,
quel che v’ho narrato, e chiunque può rigirare e compiacersi conto vuole di ciò
che accadde la mattina maledetta del 17 Luglio 2140. Io a ricordo conservo un
paio di cicatrici ingrigite, l’eco notturna del boato che scosse la torre, e
un’amara consolazione: se gli eventi avessero preso un differente cammino, se
cioè avessi fallito nel macabro compito, l’agrodolce finale di questa storia
banale avrebbe assunto ben altro velo di tetro rimorso.
La follia… No, sarebbe
stata la stessa.
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